IL GABBIANO DELLE ALPI - biografia di un uomo che sfidò il cielo -
Passeggio
da un quarto d’ora per il lungomare tarantino. Amo camminare qui, rinfrescato
dall’ombra degli alberi, e, appena giro la testa, non posso soffermarmi a
guardare rapito quel mare. Quel mare, azzurro, infinito, intervallato da navi e
popolato di creature marine che amano sguazzarci, con le loro grida e con le
loro risate, godendosi l’infinita calma. Continuo a camminare, voglio arrivare
subito in piazza Maria Immacolata, sono ansioso, ansioso di arrivare, ansioso
di vedere la mia città ancora, la mia gente, la mia storia. Ma soprattutto
vedere quella fontana, coronata da un accerchiamento di palme. Giro per piazza
Ebalia, ovviamente non senza essermi soffermato a salutare la fontana,
raggiunto da minuscole goccioline d’acqua, che non possono che portare un
goccio di frescura in una giornata così afosa. Passo oltre e proseguo dritto
per via Angelo Berardi. Forse una delle vie più belle, un arteria del tessuto
cittadino Tarantino, un’arteria che sbocca direttamente nel cuore della città.
Non posso camminare per questa strada senza soffermarmi a percepire. A
percepire quegli odori, leggeri e sempre più volatili, a guardare le vetrine
dei numerosi negozi, ed essere abbagliato dalla loro luce, o ad alzare lo
sguardo e a vedere quelle secolari palme, così alte da svettare verso il cielo,
quasi a sfidare i palazzi più moderni, come le due torri di Bologna. E non
posso camminare se non all’ombra del loro largo fogliame, cercando con lo
sguardo qualche animaletto che vi vive, a cercare ogni più minimo dettaglio
delle forme degli antichi palazzi che abitano questa via e a contemplare la
bravura degli antichi maestri. Quegli odori, che si librano verso l’aria,
diventando sempre più nuvola e sempre meno odore, quelle palme, così alte da
andare a sfidare Dio in persona, un gabbiano bianco, che dall’alto mi saluta con
un forte grido, mi fanno pensare a una via che tende sempre più verso il cielo.
Un bambino allenta la presa e perde un palloncino verde. Chissà dove arriverà,
mi chiedo, e nel frattempo quello va sempre più scomparendo. Con un pallone più grande, decine di anni fa
si librava nel cielo il pilota tarantino Angelo Berardi. Quando la tempesta lo
portò via, aveva già compiuto 64 bombardamenti sulle Alpi, e si era spinto fino
a Bolzano, unico combattente sul fronte durante la disfatta di Caporetto. Il
valoroso sfidò il cielo innumerevoli volte, come quando spinse il suo
dirigibile fino ai 6250 metri, altezza fino ad allora mai raggiunta. Quando gli
chiesero il perché rispose che il suo M.11 aveva voglia di volare. Nella sua
vita sfidò varie volte il cielo, guidando nelle peggiori condizioni, nella
nebbia più totale, con il costante pericolo di finire contro le rocce
dolomitiche, terre piene di trappole nemiche per la loro particolare posizione,
volando cieco e intirizzito dal gelo, assieme agli altri due componenti, il
Capitano Tedeschini e il suo fidato motorista Parodi. Bombardò con successo i
maggiori centri del nord, distrusse convogli e stazioni ferroviarie, provocando lo scompiglio tra le file
avversarie, come quando in seguito al bombardamento della stazione di Bolzano,
il comando militare nemico dovette distribuire dei volantini che raccomandavano
alla gente del luogo di mantenere la calma. Si ritrovò in una condizione
difficile quando la notte del tre luglio riuscì ad evitare con grande maestria
le luci dei riflettori e i colpi delle artiglierie nei pressi della città di
Trento, riuscendo a bombardare con successo la stazione e a diffondere
manifesti patriottici. Dopo la firma dell’armistizio, il maggiore Berardi poté
sorvolare il cielo senza il timore di un contrattacco, e, mentre trasportava il
comandante dell’aereonautica, il generale Bongiovanni a un incontro con il re,
non bombe ma fiori e manifesti dell’Italia libera vennero sganciati a terra.
Diversi i riconoscimenti, tra cui ben due medaglie d’argento al valor militare.
Il modo in cui sapeva maneggiare, con estrema abilità, il suo dirigibile
rispecchia la sua figura. Una figura austera, alta, slanciata, mai sopra le
righe, anche con la paura attaccata e il nemico che aspettava la preda dietro
l’angolo. E con la stessa compostezza, con la stessa morale statuaria il primo
pilota di dirigibile Angelo Berardi avrà osservato il cielo, immerso fino al
collo nel mare. Ironia della sorte che un uomo che aveva visto le nuvole per
tutta la vita dovesse morire in mare. Le cristalline acque del Golfo Jonico se
lo presero, tarpandogli le ali. Nella sua vita aveva sfidato il vento diverse
volte, portando il suo dirigibile a scontarsi contro le temibili correnti
alpine. Ma il condottiero aveva perso la sua ultima battaglia. Un forte vento
lo prese mentre cercava di atterrare a San Vito. I due altri membri del suo
equipaggio riuscirono a salvarsi, ma ben poco fu la soddisfazione di aver
toccato terra di fronte alla terribile tragedia che stava accadendo. Il loro
pilota, il loro miglior pilota, non riusciva a prendere più il controllo del
suo mezzo, un dirigibile O.6. Il vento lo prese e se lo portò via, non
curandosi dello sgomento negli occhi dei due. Ma un terzo guardava la scena.
L’ingegner Berardi, il papà di Angelo. Chiese ai due chi fosse rimasto sul
dirigibile , e sbiancò, quando i due nominarono il suo cognome. Il corpo del
maggiore Angelo Berardi non venne mai più ritrovato. Il
suo dirigibile a qualche chilometro a sud di Santa Maria Di Leuca. Ma forse non
è un caso. Forse non è un caso che il tuo corpo non sia stato ritrovato. A
volte, infatti, ripenso a quel gabbiano. E mi piace immaginare, nella mia
fantasia malata, che quel gabbiano sia tu, insieme al tuo cielo, tu imponente
creatura che voli nel cielo, con la nostalgia della tua città ti giri in volo
tutta Taranto e rivedi la tua gente, la mia gente, la tua città e la tua
storia.
Continua
a volare, SPARVIERO TARANTINO
Domenico D'Onghia
Spazio Faro Blog
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