Baby Gang: un fenomeno globale





Il fenomeno Baby Gang non è una novità, da quando si è originariamente manifestato non ha mai avuto termine, è tornato, però, ad essere drammaticamente attuale in questi ultimi mesi; una serie di aggressioni ad opera di alcune bande di ragazzini napoletani, come quella a danno di Arturo, un 17enne ripetutamente accoltellato in via Foria in pieno pomeriggio, per la loro crudeltà ed efferatezza, hanno riportato l'attenzione dell'opinione pubblica sul tema, rivelandone nuovi ed inquietanti caratteri. “C'è un ragazzo in Francia, chiamato il << terrore di Limoges >> perché a 12 anni aveva già realizzato tre aggressioni in soli otto giorni. A 14, con la sua banda, figurava in 60 dossier giudiziari. Attualmente, quasi 18enne, è in carcere, ma uscirà a maggio. Potrei ancora citare le manifestazioni degli abitanti del 19° arrondissement di Parigi contro le bande giovanili, o gli scontri ricorrenti tra la gendarmerie e gruppi di giovanissimi nelle banlieue parigine e di Bruxelles. O i confitti endemici negli Usa, tra giovani e polizia (…).O gli hooligan, presenti un po' dappertutto. Dico questo in nome di un consolatorio << tutto il mondo è paese >>? No, è per capire meglio, per sprovincializzare il dibattito.” Così scrive Nicola Quatrano nell'articolo “Baby Gang ai lavori sociali”, pubblicato nelle pagine del “Corriere del Mezzogiorno” a fine Gennaio e, forse, è da queste considerazioni che può iniziare una nostra riflessione sul fenomeno Baby Gang. Possiamo oggi universalizzarlo , rintracciandone comuni aspetti, al di là dei diversi contesti in cui si manifesta, nei riti di affiliazione, nei simboli di appartenenza, nel modus operandi e in tanti altri epifenomeni, così come possiamo universalizzarne le cause, riconducibili a crisi educative, comune senso di impunità ma sopratutto analogo contesto ambientale. Tutti ragazzi provenienti dalle periferie, cresciuti in contesti di emarginazione sociale ed economica, da sempre a contatto con dinamiche al limite della legalità, più che precocemente protagonisti di azioni criminali. Accompagnate da una povertà giovanile in drastica crescita questi fattori tracciano il profilo di una universale questione giovanile, potenzialmente esplosiva; in essi possiamo rintracciare la radice di un rancore giovanile globalizzato, quasi sempre camera di incubazione di criminalità organizzata e narcotraffico. Prima di tutto è necessario chiedersi se un'inflessibile reazione dell'autorità pubblica possa essere da sola una valida risposta. Sicuramente lo sarebbe al diffuso senso di impunità, e la certezza di pene severe deve essere il presupposto indispensabile per qualsiasi altro tipo di reazione. Ma può bastare? Possiamo analizzare gli effetti della <<tolleranza zero>> negli Stati Uniti, che con meno del 5% della popolazione mondiale vantano il 25% della popolazione carceraria con 2,3 milioni di detenuti. I lavori di pubblica utilità o le comunità di socializzazione, proposti da Quatrano nel suo articolo, possono essere una valida cura? Una sanzione più educative ed umana? In alcuni casi eviterebbero l'esclusione e la deresponsabilizzazione definitiva dei colpevoli. Ma sopratutto come guarire il contesto ambientale? Il contrasto alla povertà giovanile è una strategia per fermare le Baby gang? Non sembra che i ragazzini napoletani, che si fotografano sfoggiando catene, mazze e pistole, non abbiano il necessario per vivere, così come non sembra che i ragazzi della Baby gang di marocchini di Torino non abbiano il necessario per sostentarsi e vestire streetwear;  in entrambi casi la violenza è sempre insensata, crudele, si ruba poco o nulla, al massimo un giubbotto particolarmente alla moda o uno smartphone, lo scopo è la violenza in sé, l'intimidazione, il potere di sopraffare l'altro impunemente con la forza, forse la voglia di sottrarsi ad un destino di “oscurità assoluta in un mondo in cui bisogna brillare”.  Evidentemente allora sono tutti interrogativi che sfiorano solamente la reale radice di un rancore giovanile globale, radice che possiamo forse identificare nella totale disgregazione di un tessuto morale, civile e culturale. Forse dovremmo prendere atto di vivere una civiltà che ha smarrito definitivamente la rotta, ha perso il senso del suo posto nella storia, senza valori, senza morale, senza una comune cultura o etica di riferimento. Una civiltà incapace di rappresentare quel Tutto mediatore, unificante, entro il quale ognuno può essere compreso e riconoscere l'altro proprio in virtù della sua comune co-appartenenza al Tutto. La nostra civiltà non è più capace di affermare nessuna verità. Chi ha accoltellato Arturo, non ha avuto la capacità, a soli 15 anni, di vedere in quel ragazzo quasi coetaneo, un fratello, non ha sentito di condividere una comune origine e un comune destino. Se non avessero vissuto la propria libertà come spregiudicato esercizio del proprio egoismo, ma partecipazione sociale, lo avrebbero risparmiato. Avrebbero impiegato il proprio tempo in attività più produttive, per tutti.


Domenico Salerno

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